lunedì 18 gennaio 2016

Franny, recensione del film drammatico con Richard Gere



Con quel nome lì, così salingeriano (che poi è anche il titolo del film che segna l'esordio nella regia di Andrew Renzi), Franny non poteva che essere il personaggio che è: il miliardario eccentrico e filantropo, con il look casual, le sciarpe colorate e le Mercedes cabrio degli anni Settanta. Ma anche l'uomo che dietro l'euforia chiaramente nevrotica nasconde la depressione  (come spesso accade), che annega nella morfina i sensi di colpa rischiando di andare a fondo lui stesso, e senza il salvagente del denaro e della simpatia. 

Dice Richard Gere, che di Franny è il protagonista unico e assoluto, sempre talmente sopra (o sotto) le righe da oscurare qualsiasi altro personaggio della sua vita e del film, che quello di Renzi non è un film sul senso di colpa, né un film sulla dipendenza. Secondo lui Franny è un oggetto caleidoscopico capace di restituire la complessità della vita e delle persone vere: per lui, da attore, non c'è dubbio che la cosa sia stimolante; per gli spettatori le cose vanno magari un po' diversamente. 
Più che costruire lentamente un mosaico esistenziale, l'agitarsi di Franny si tramuta nel più banale dei puzzle, e le sue ombre (caratteriali, comportamentali, perfino sessuali) si allungano sbiadite sopra un racconto che non è brilli proprio per luminosità. 

C'è da dire che, in un film che bandisce quasi del tutto i telefoni cellulari, e che guarda diritto al cinema americano di fine anni Settanta (e di certo dei primi anni Ottanta), non è che ci possa aspettare le luminose patinature o gli eccessi di mobilità visiva dei film di oggi. E questo non è necessariamente un male: anzi. 
Ma, sebbene possa far venire alla mente la versione manico-depressiva di un film di un Hal AshbyFranny non cattura né le vibrazioni della New Hollywood, né la forza letteraria di un Salinger, o di quell'Hemingway che Gere ha citato come ispirazione per il personaggio. 
Renzi non sa bene dove andare, aggrappandosi alle soluzioni più facili per esprimere momenti e stati d'animo: il look trasandato di Franny da abbandonare, i bambini malati da accudire, e le tante scene madri in cui Gere - rosso d'accaloramento o di vergogna, ma senza eccedere nella rabbia come ogni bravo buddista - fa trapelare i suoi dolori e suoi demoni. 

L'emotività, così teleguidata e standardizzata, ne risente. E lo sguardo si distrae. 
Perché tanto la riabilitazione di Franny, che è tanto fisica quanto esistenziale, è dietro l'angolo e si sa, con un pancione – quello di Dakota Fanning, amatissima figlia degli amatissimi amici morti – che sta lì dai primi minuti a ricordare il potere salvifico di una nascita e della vita. 
Nascite e rinascite: più buddista di così. 

Fonte: http://www.comingsoon.it


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